Apple e i periodici, se disintermediando…

Il mercato dei periodici soffre la sperequazione tra un oligopolio della distribuzione digitale dotato di enormi mezzi finanziari e un mercato della produzione di contenuti frammentato, senza barriere all’ingresso e con problemi di sostenibilità economica.

Negli ultimi giorni sono rimbalzate indiscrezioni sulla proposta di Apple a numerosi editori di riviste e quotidiani per indurli a partecipare al nuovo progetto che verrà lanciato, sempre secondo le stesse indiscrezioni, alla fine di marzo 2019. Il servizio, nato sulle ceneri di Texture, – l’inefficace “netflix per le riviste” lanciato da Condé Nast, Meredith e Hearst nel 2009 – dovrebbe somigliare più ad Apple music che a Flipboard, permettendo quindi al consumatore di ibridare l’ambiente a pagamento con le sue personali raccolte di contenuti all’interno di una unica esperienza e offrendo, a fronte di un abbonamento da 10 dollari al mese, la lettura senza limiti di tutti i contenuti presenti nell’ecosistema, grazie ad un sistema integrato di fruizione on-line e off-line su apparecchi multipli.

Apple ha comprato Texture nel 2018 e, secondo i bene informati, oltre a comprare l’iniziativa si è anche assicurata la partecipazione dei 3 editori fondatori nel nuovo servizio che, e qui sta la vera novità, invece di funzionare con la tradizionale formula del 30/70, cioè della retrocessione del 70% all’editore originale come nel caso dei servizi Apple legati alla musica o ai contenuti video, si attesterebbe qui su un più rotondo 50/50.

Non sarebbero previsti, inoltre, protocolli di condivisione di dati d’uso o di anagrafiche degli abbonati con gli editori, neanche per finalità di personalizzazione o contestualizzazione dei contenuti, mentre sarebbe lasciato agli editori stessi il pieno incasso pubblicitario generato dalle loro pubblicazioni. Apple avrebbe adottato questa posizione, sempre secondo i ben informati, proprio perché già forte dell’adesione di quasi tutta la famiglia degli editori di riviste americani. Un dato che però non avrebbe ammorbidito gli editori di quotidiani nazionali e locali che, neanche troppo educatamente, avrebbero declinato l’offerta.

L’indiscrezione ha sollevato l’oltraggio della rete e il tradizionale coro di sdegno dell’industria dei contenuti. La conversazione digitale ha concentrato la sua attenzione sul fatto che un’azienda digitale che restituisce, ad esempio, l’85% del fatturato a HBO e a Epic Games (creatori di Fortnite) o il 70% a Spotify, propone solo il 50% a editori di giornali e riviste. Il diverso trattamento riservato all’editoria rispetto alle major musicali o ai produttori di serie e film mette a nudo la percepita debolezza del settore della produzione industriale di informazione e contenuto, manifestando anche la convinzione dei giganti digitali (Apple in questo caso) che almeno la metà del valore economico dell’atto del consumo di informazione o intrattenimento nella forma editoriale tradizionale debba spettare al canale di distribuzione. Una convinzione che non si esprime invece verso i produttori di applicazioni, giochi o contenuti video. Naturalmente gli editori più forti hanno declinato questa prima offerta, soprattutto quelli che, come il New York Times e il Washington Post, hanno nel corso del tempo speso e studiato per trovare modi di migliorare l’esperienza del cliente/lettore trasformando anche profondamente la forma dei propri contenuti.

L’industria editoriale, invece, ha avuto un primo, amaro, assaggio di quello che seguirà all’approvazione della legge sul copyright e degli articoli 11 e 13.  La spinta a regolamentare in maniera esaustiva e formale il rapporto tra produttori di contenuti e canali di distribuzione, spinta che inevitabilmente scaturirà anche dai cambiamenti regolamentari introdotti dall’applicazione della nuova direttiva europea sul copyright, metterà a nudo la sperequazione di potere nella relazione con il cliente finale e quindi con la fonte del valore economico dell’atto di consumo.  Aver introdotto il principio che le grandi piattaforme digitali di distribuzione sono veri e propri agenti economici con piena responsabilità di ciò che accade nei loro server significa aver squarciato l’ambigua identità che questi stessi si erano costruiti non come distributori ma abilitatori dell’informazione e dell’intrattenimento.

Se questo cancella la loro capacità di manifestarsi come agenti super partes, lascia però che l’interazione tra giganti digitali ed editori rientri in un più diretto quadro economico, senza però alcuna garanzia che il rapporto di forza sia paritario tra i due. Il rischio, ben manifestato dalle prima cannonate di saluto lanciate da Cupertino, potrebbe essere che anche barriere auto-imposte dai giganti digitali, come lo scambio dei dati o il 30% come tetto massimo della trattenuta di canale, vengano travolte dalla sperequazione tra un oligopolio dotato di enormi mezzi finanziari e un mercato della produzione di contenuti frammentato, senza barriere all’ingresso e con problemi di sostenibilità economica. Tra i produttori di contenuti affronterà alla pari questa sfida, come abbiamo già più volte sostenuto, solo chi avrà interiorizzato le competenze, le strategie e le organizzazioni adatte a offrire un servizio al cliente che insieme all’eccellenza dei contenuti garantisca efficienza nella distribuzione e efficacia nell’esperienza di consumo – tanto da poter competere con le grandi piattaforme digitali.

Chi, invece, crede di poter ancora di approfittare di una rendita di posizione in quanto media, si trova su una china in cui il 50% del valore sarà solo un bel ricordo dei tempi grassi.  

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