Dissenso e fact checking a Facebook

C’è qualcosa di marcio nel regno di Menlo Park. Dopo la pubblica audizione al Congresso di Mark Zuckerberg e l’umiliante duello retorico con Alexandria Ocasio Cortez, il dissenso verso la linea adottata da Facebook riguardo la pubblicità politica esplode anche all’interno dell’azienda.

In una lettera pubblicata nella piattaforma di comunicazione interna di Facebook, oltre 250 dipendenti hanno protestato contro la decisione del vertice aziendale di permettere a partiti e candidati politici, in difesa del loro diritto costituzionale alla libera espressione, di postare liberamente opinioni e dichiarazioni patentemente false. In buona sostanza, la norma prevede che a questa categoria di contenuti non venga applicata la regola – implementata attraverso agenti umani ed informatici – di rimozione del contenuto a fronte di fallimento nel sostenere fact-checking indipendente. La regola vale anche per la pubblicità direttamente pagata da candidati o partiti politici e non solo per le citazioni o le esternazioni fatte da politici sui loro profili, non vale invece per spot pagati da istituti terzi o associazioni a supporto dei singoli candidati.

Il gruppo di dipendenti ha protestato con veemenza le implicazioni di questa politica permissiva, citando fenomeni fin troppo noti come la diffusione di notizie false e provocatorie, spiegando come questo approccio sia di fatto una minaccia per la natura stessa di Facebook e per il suo desiderio di connettere e avvicinare le persone. Introdurre, de facto, libero regno a falsità e dichiarazioni incendiarie tese proprio a polarizzare e dividere, incassare direttamente dalla pubblicazione di queste, sono conferme esplicite delle critiche che la politica e gran parte dell’opinione pubblica rivolgono ormai quasi quotidianamente alla grande F bianca. Una minaccia esistenziale, continua la lettera collettiva, non solo per la piattaforma stessa ma anche per la società nel suo insieme, un enzima di accelerazione per l’azione dei nemici del social network, per chi spinge per la sua frantumazione per decreto o per legge. 

Il dissenso interno, seppure ridotto nei numeri visto che 250 dipendenti non sono che circa lo 0,7% della forza lavoro che risponde a Zuckerberg, si aggiunge infatti all’azione costante della politica (soprattutto lato democratico) che ha ormai assunto toni di sfida aperta. Elizabeth Warren, candidato leader delle primarie democratiche, ha dichiarato pubblicamente la sua intenzione di spezzettare Facebook come le telefoniche degli anni ’80, mentre l’Unione Europea ha formalmente bocciato le contromisure prese da Menlo Park per fermare le notizie false e controllare le azioni coordinate di diffusione della disinformazione. L’incombere delle nuove elezioni presidenziali americane e delle elezioni politiche in UK hanno ulteriormente reso urgente trovare una soluzione al pericolo potenziale del continuato uso malevolo dei media digitali e social. Più urgente forse dei richiami al diritto di libera espressione che Zuckerberg stesso pone come fondamenta all’approccio che tanto disturba anche i suoi dipendenti.

Nonostante gli oltre 10,000 umani che hanno affiancato negli ultimi 3 anni gli algoritmi per controllare i contenuti, i controlli sono stati beffati nelle ultime due settimane da due spot pubblicati da gruppi favorevoli a Donald Trump contenenti affermazioni chiaramente false sul passato di Joe Biden; sono stati irrisi da Adriel Hampton che – iscritto come candidato a governatore della California – sta sfruttando proprio la clausola di salvaguardia per i politici per pubblicare campagne apertamente false e diffamatorie nei confronti di Donald Trump e dello stesso Zuckerberg. L’esenzione dal fact checking delle opinioni e delle pubblicità dei politici rende, di fatto, inutili i cambiamenti ai meccanismi di controllo introdotti dopo le elezioni Usa del 2016, fino a rendere impossibile persino chiedere la rimozione di pubblicità o post acclaratamene falsi. I falsi post di Trump su Biden non sono stati rimossi, infatti, nonostante una richiesta diretta di quest’ultimo.

La risposta di Facebook si è manifestata in un intervento di Mark Zuckerberg a Georgetown; in un discorso di circa 45 minuti, il magnate americano ha argomentato che la libertà di espressione è il sale della democrazia e che Facebook rifiuta ora e rifiuterà sempre il ruolo di censore, preferendo la libertà con errore alla perfezione con repressione. “La costruzione di un quinto stato, che si affianchi a tutte le altre strutture di potere della società, la libera espressione del popolo su scala mai vista prima. Questo è Facebook” secondo Mark, una visione che si accompagna ad un più pragmatico e giurisprudenzialmente valido richiamo al fatto che sia la televisione, sia le altre piattaforme di diffusione dei contenuti non hanno, negli Stati Uniti, obbligo o facoltà di applicare censura. 

Il dibattito non si esaurisce qui e non si esaurirà a breve; quello che emerge con forza è che la soluzione interna, l’autoregolamentazione delle piattaforme digitali, ha esaurito il suo periodo di validità. La politica e l’opinione pubblica non hanno più molta fiducia nella capacità della tecnologia di discriminare efficacemente tra vero e falso, soprattutto se è proprio dalla creazione del verosimile che guadagnano di che vivere. Le soluzioni in arrivo, se l’industria non si regolerà da sola in fretta e in maniera efficace, saranno quelle della tradizione politica: lo spezzatino e la regolamentazione.  

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