Una cifra della modernità è la crescente parità tecnologica tra i gruppi organizzati del male e le piattaforme che dovrebbero controllare il loro accesso al discorso sociale e culturale della nostra società.
Cominciamo con i dati: prima che fosse rimosso al team di monitoraggio dei contenuti, il video del massacro di Christchurch era stato visto 4,000 volte solo su Facebook. Il video, un agghiacciante omaggio agli sparatutto che spopolano nei nostri soggiorni, è stato girato con una camera go-pro montata sul caschetto dell’assassino, la stessa tecnica usata per prima da Kathryn Bigelow in Strange Days nel 1995 e ripercorsa in innumerevoli videogiochi, serie e film degli ultimi 3 decenni. Trasmesso live, il video durava 17 minuti in cui mostrava, con tutti i riferimenti grafici e emozionali di Call of Duty, la morte di 50 innocenti. Le prime proteste sono arrivate a Facebook dopo 12 minuti, quando il video era stato già visto da 200 persone; contemporaneamente più di uno di questi 200 utenti lo stava copiando, riversando e trasmettendo anche sul sito di condivisione 8chan e su YouTube. Altri, nello stesso lasso di tempo, collegavano al video stesso il manifesto anti musulmano prodotto dall’assassino e pubblicato su stanze pubbliche e private globali di gruppi digitali razzisti e suprematisti bianchi.

Dopo l’allerta (12 minuto), Facebook ha immediatamente interrotto la trasmissione live e costruito un “hash” digitale, cioè una copia del file che contiene una serie di parole chiave che descrivono tutte le caratteristiche del video originale; questo hash viene poi dato in pasto ai filtri automatici come referenza per esplorare tutti i profili della piattaforma, segnalare e rimuovere qualunque contenuto che a quell’alias digitale assomigli o che ne condivida le caratteristiche principali. Entro le 24 ore successive alla trasmissione originale, il team di moderazione contenuti e i suoi algoritmi avevano bloccato oltre 1,2 milioni di tentativi di caricamento di versioni del video, cancellandone 300 che invece avevano oltrepassato i filtri automatici. I più scaltri tra i divulgatori del video ne avevano modificato alcuni parametri, permettendo a copie e versioni modificate di apparire, costantemente, su Facebook stesso e su altre piattaforme digitali tra cui YouTube, 8chan, Twitter e Whatsapp. Più di due giorni dopo il crimine, immagini del video erano ancora ricercabili tramite Google e alcuni hashtag di Twitter. Tutte le piattaforme digitali globali collaborano tuttora con la polizia neozelandese per l’identificazione degli utenti coinvolti in questa opera di diffusione capillare dell’orrore, affinando continuamente l’elenco di attributi digitali che il filtro va a sniffare in giro tra i contenuti presenti nella piattaforma, ma la situazione illustra pienamente i problemi inerenti al controllo di una piattaforma di pubblicazione globale.
La presenza, costante e continua, di individui e gruppi di estremisti, la costruzione di gruppi chiusi e aperti di diffusione delle ideologie di questi, il dilemma occidentale del rapporto tra libertà di espressione e garanzia della sicurezza, sono tutti temi che si intrecciano ad una crescente parità tecnologica tra questi gruppi organizzati del male e le piattaforme che dovrebbero controllare il loro accesso al discorso sociale e culturale della nostra società. Alla sofisticazione tecnica crescente e spesso finanziata da enti governativi terzi, il mondo dell’estremismo abbina ormai una capacità iconografica e un linguaggio di comunicazione sofisticato che ammicca e cavalca l’impatto sugli immaginari collettivi del mondo dei videogiochi e delle serie, sfruttando la pochezza culturale della produzione progressista o impegnata di questi ultimi vent’anni. Non ci sono dubbi che la possibilità di usare piattaforme gratuite per raccogliere audience globali giochi un ruolo in questa nuova stagione della strategia del terrore, così come la natura algoritmica dei modelli di diffusione dei contenuti permetta, a gruppi sempre più finanziati e tecnologicamente capaci, di sfruttare il tessuto stesso delle piattaforme per amplificare il proprio messaggio. Ugualmente, appare però riduttivo e francamente ipocrita il coro che si alza dopo ciascuno di questi eventi. Un coro che indica solo ed esclusivamente nelle piattaforme tecnologiche il colpevole e, in particolare, si concentra sul fallimento tecnologico di queste a filtrare o bloccare tutti i contenuti dannosi e criminali che individui o organizzazioni pubblicano indefessamente.
Proviamo, invece, a chiederci perché per 12 minuti nessuno ha denunciato l’orrore che scorreva sugli schermi, perché riprodurre il video sia stata la prima reazione di milioni di individui dotati della qualità tecnica e intellettuale sufficiente a riprogrammare un file per sfuggire ai sistemi di controllo delle aziende più ricche del mondo, perché la forza culturale di uno schema iconografico e artistico digitale, come quello dei videogiochi, prenda la scorciatoia della violenza nella mente di chi compie queste azioni. Proviamo a capire perché esiste una comunità di oltre 300,000 persone che si chiama “Watchpeopledie.” In questa accelerazione di paradigma, per noi incomprensibile, si insinuano fianco a fianco l’azione consapevole e ben finanziata di gruppi organizzati di matrice razzista e la confusione e lo scolorarsi delle liturgie della democrazia, della legittimità dei suoi principi fondamentali. E’ più facile per noi gestire l’orrore indicando un nemico distinto ed inumano, come il big tech, piuttosto che prenderci le nostre responsabilità di fronte a un nuovo normale dove accade sempre più spesso che individui alla ricerca di una propria identità e di un ruolo in una società competitiva e difficile, cerchino la scorciatoia della fama, della rilevanza seppure momentanea per audience globali intrattenute con una formula che riconosce solo il linguaggio iconografico e culturale della violenza e della tecnologia che spesso, ahimè, si assomigliano.
In questa totale incapacità delle forze democratiche e delle agenzie culturali riferibili a una idea della società e del progresso più inclusiva, che dobbiamo trovare molte delle ragioni di questa distopia in cui viviamo. Non siamo stati in grado, noi per primi, di costruire linguaggi estetici e culturali, prima ancora che politici, capaci di contrastare il monologo della violenza e degli sparatutto. Non siamo stati in grado di costruire una manifestazione dell’interconnessione che abbiamo, invece, concretamente costruito tra le economie e le società del pianeta, lasciando fiorire un modello culturale che ha ridato fiato all’idea della solitudine e della separazione. Una crisi di pensiero che ha trovato negli USA, tradizionale motore della cultura e dell’estetica di massa della democrazia occidentale, il principale paziente zero. Dominata da una reale tribalizzazione della sua popolazione dovuta alla distribuzione del reddito e alla virtualizzazione digitale delle relazioni, l’America ha ceduto armi e bagagli a una nuova estetica che ha cementato l’individualismo con il tecnologismo, la violenza con la teorizzazione dell’azione individuale come unica possibile agenzia legittima in una società altrimenti troppo complessa. La semplificazione come soluzione. Abbiamo il compito, oggi, di ridare invece una valorizzazione estetica, culturale e politica alla complessità, alle agenzie collettive, costruite, plurime, se vogliamo che il discorso della nostra epoca torni a riconoscere la desiderabilità dei valori universalisti che sin dall’illuminismo abbiamo abbracciato nel mondo occidentale.