Il Futuro che verrà

L’esercizio fondante della libertà umana è la partecipazione al discorso sul futuro; una partecipazione attiva, fattuale, concreta, collettiva e quindi legittima nella sua trasformazione del presente e della coscienza di esso.

Il gioco degli scenari occupa molti attori in questi giorni. Individui, fondazioni, imprese e associazioni si stanno superando nello sforzo di dipingere futuri possibili o probabili, distopici o utopici. Le grandi aziende di consulenza sono pronte a suggerire ricette organizzative, a individuare opportunità di efficienza nel caos, a disegnare programmi e scenari pret-a-porter per aiutare le aziende nelle transizioni dei prossimi mesi. Centri studio, economisti e accademici si concentrano molto sulla parte di offerta, anche nello studio dell’evoluzione del lavoro. Negli scenari di trasformazione troviamo molti fattori che ricorrono: l’accelerazione dell’automazione nel settore produttivo, l’accorciamento delle catene geografiche di produzione e distribuzione, la trasformazione del commercio, la dematerializzazione dei processi educativi, dei luoghi e delle modalità del lavoro e, infine, la rivoluzione nei tempi e nei modelli del consumo e dello svago. Le versioni di futuri possibili divergono per velocità di materializzazione di questi fenomeni, per valutazione della loro estensione, ma non si mette in dubbio in nessun modo l’egemonia dello sviluppo tecnologico ed economico sulla costruzione della nostra realtà che anzi è data per accelerata dalla pandemia. Nonostante questa crisi abbia reso necessario il ricorso alla politica e allo Stato come garanti di ultima istanza e manifestato il più grande azzardo morale della storia capitalista: dodici anni di iniezioni massicce di risorse economiche pubbliche (dai bail-out ai quantitative easing) senza però cambiare la distribuzione di redditi e patrimoni, accettando che questi soldi andassero ad amplificare e non a riequilibrare i meccanismi allocativi del mercato post capitalista già evidentemente incapace di creare prosperità e sicurezza diffuse. Costretta a fare da banca, stretta tra debito e iniezioni di liquidità, la politica ha dovuto annientare la sua voce nel disegno del futuro e pensare solo all’emergenza presente. Così come la cultura, imbavagliata da un canone estetico tecnologico e adolescenziale, si è trovata troppo spesso esoterica o conservatrice. Il disegno del futuro sembra appannaggio unico della tecnologia (e dei suoi imprenditori demiurgi) o della scienza triste, l’economia.

Eppure gli apporti della cultura e della politica al disegno di un futuro o di molti futuri, sono contributi fondamentali alla discussione collettiva sulla desiderabilità e attuabilità dei futuri stessi. In questi teatri si definiscono i corsi di azione da intraprendere per evitare o far accadere i vari scenari, la visione ontologica ed epistemologica dell’umanità e del suo reale per come è e come dovrebbe essere. Senza questo sforzo, si condanna la storia a diventare natura, ad accadere cioè invece di essere costruita, a risultare dal coacervo di rapporti di forze e spinte economiche, tecnologiche, politiche, finanziarie, sociali, sanitarie ed individuali. Un tempo che progredisce in assenza di percezione di un disegno collettivo, di un tentativo umano di appropriarsi delle dimensioni concrete del proprio presente esercitando una forma di agenzia per il proprio futuro. Se non ci percepisce il disegno collettivo, esso non esiste. In termini romantici tradizionali, sarebbe un mondo senza spirito quello che rinuncia per scelta a una agenzia collettiva, a una dimensione sostanziale di autodeterminazione umana che vada oltre la natura, che sia faber del suo contesto. Siamo abituati, nei nostri tempi, ad accettare che le uniche vere forme di autodeterminazione siano quelle economiche o individuali; eppure individui e aziende, per quanto potenti o di successo, per quanto detentori o detentrici di capitale e strumentazioni, si muovono sempre in una realtà collettiva che, con i suoi rapporti di forza e i suoi condizionamenti epistemologici, influenza i presenti ed i futuri di tutti noi.

L’esercizio della costruzione di una o più visioni del futuro serve: serve alla politica, all’economia, alla coscienza individuale di aziende e esseri umani. Definisce i contorni dell’azione collettiva, ne influenza azioni e linguaggi, manifestamente o per influenza. Da questo esercizio la politica e la cultura sono stati ben lontani negli ultimi anni, incapaci di fornire suggestioni anche solo originali, relegati ad altre finalità dall’azione economica e tecnologica, minati nella legittimità da un ruolo partigiano dei media a servizio di ceti dominanti, in soggezione verso la ricchezza della visione e del linguaggio di economia e tecnologia. Politica e cultura hanno preso a prestito terminologia ed immagini, riferimenti etici e morali, da queste sfere senza mai sottomettere questi apparati ideologici a uno scrutinio estetico e politico. Senza mai ridurli, come essi realmente sono, a strumenti di un più fondante sistema legato alla felicità umana, ai diritti individuali e collettivi, alla libertà di ciascuno di noi e della nostra collettività. Fare soldi, fare attività economica, avere soluzioni tecnologiche, inventarle, non sono fini ma strumenti, elementi fondamentali dell’azione umana (individuale e collettiva) volta a ricercare sistemi e strumenti sempre più complessi per essere libera; libera dal bisogno, dalla sofferenza, dagli impedimenti di altri, da vincoli che ciò che non è umano pone a tutti e a ciascuno di noi. A questa fondante finalità vanno ricondotti, prima idealmente e poi concretamente, attraverso l’esercizio culturale e politico della costruzione di una visione di futuro. L’esercizio fondante della libertà umana è la partecipazione al discorso sul futuro, attiva, fattuale, concreta, collettiva e quindi legittima nella sua trasformazione del presente e della coscienza di esso.

La mia versione del futuro, che qui vi illustrerò in forma sincopata, è volontariamente semplificata; questo artificio semantico non esclude la complessità del processo collettivo che accade e accadrà per realizzarla. Né diminuisce la consapevolezza che il percorso verso questo futuro cambierà il futuro stesso, come è sempre accaduto; perché le azioni di individui, aziende, fondazioni, Stati, anche se consapevoli di una direzione, mutano i rapporti di forza, le scelte tecnologiche e economiche, variano costantemente lo stadio finale. In questa variazione, che nasce dal parallelo agire delle agenzia individuali e collettive, immediate e costruite, è l’imprevedibilità del destino umano così come la sua natura di storia, di collettivo movimento verso una direzione liberamente scelta dal genere umano. L’impossibilità di porre la parola fine, di raggiungere uno stadio di cessazione del moto, è garantito da questo costante agire di individui, aziende, Stati, associazioni, fondazioni; un agire che cambia il tessuto del presente di tutti e ne definisce la coscienza del futuro, che trasforma realtà e immaginazione, che definisce cultura e tecnologia. In questo reale che è mediato, costruito, umano e non naturale, è il grande dono del libero arbitrio; la fondazione della libertà come elemento distintivo dell’essere umano rispetto al resto delle relazioni causali. Vi prego quindi di non solidificare la visione di questo futuro, di renderla ferma ed immutabile, ma di leggerla come un disegno di una direzione che sta arrivando, che si legge tra le righe, scritte e non scritte, di questo presente multi autore in cui viviamo, accelerata dall’emergenza in cui viviamo oggi e dalla manifesta mancanza di una agenzia collettiva legittima che oggi testimoniamo ovunque nel mondo occidentale.

Esisteranno grandi insediamenti produttivi, quasi interamente robotizzati, che produrranno tutto a costi sempre più efficienti. Lo stesso avverrà per la coltivazione della terra mentre (spero) non per l’allevamento degli animali. Lo sviluppo dell’informatica, dei materiali e della meccatronica permetteranno di avere impianti grandi, sostenibili, gestiti da intelligenze artificiali che ne minimizzano down e idle time e ne massimizzano efficienza ed efficacia. In questi giganteschi insediamenti, saranno prodotte tutte le merci industriali, dalle gru alle magliette, dagli smartphone alle automobili. Saranno così efficienti da permettere la produzione anche di pochi esemplari e saranno direttamente interconnesse a una rete distributiva egualmente robotizzata e infarcita di intelligenza artificiale che servirà direttamente la domanda individuale. Gli stessi insediamenti saranno collegati a un grandissimo mercato digitale dove la domanda e l’offerta si incontreranno in maniera continuativa. In questa piattaforma digitale individui e aziende saranno consumatori e produttori; si venderanno, fianco a fianco, servizi e prodotti, software e beni di consumo fisici. Questi ultimi accederanno al mercato sotto forma di idee, piani, disegni, semilavorati o rendering più o meno sofisticati. La produzione fisica avverrà solo sul comprato, mediante la comunicazione tra questo mercato digitale e i grandi insediamenti fisici che abbiamo descritto sopra. In poche parole, oltre ad essere consumatori e a comprare da questo grande mercato digitale, noi avremo a disposizione i mezzi intellettuali e digitali per disegnare e offrire magliette, software, consulenza, libri, automobili, respiratori, mascherine, tutto quello che sappiamo disegnare e pensiamo il mercato possa assorbire. Lo faremo partecipando come individui o aziende, per vendere direttamente al consumatore o alle aziende più grandi, partecipando in questa dimensione digitale di mercato dove l’investimento necessario ad entrare è limitato alla creatività e alla comunicazione.

Ad esempio: io accedo al mercato digitale dove intendo commercializzare una linea di magliette dedicata a Roberto Pruzzo (con cui ho concluso un accordo per lo sfruttamento dei diritti). Per ora ho solo disegnato e tutelato legalmente il mio prodotto, l’ho realizzato digitalmente tanto da poterlo già mostrare, tanto da poter, eventualmente, renderlo oggetto di una campagna di comunicazione. L’accesso al mercato digitale globale in questa forma ancora incorporea mi permetterà di abbinare al prodotto la domanda. Se la troverò, potrò ingaggiare con una logica di condivisione del fatturato, l’insediamento produttivo e la catena di distribuzione che materialmente produrranno e consegneranno le magliette, oltre a remunerare il mercato stesso che mi ha dato accesso a tutto ciò. In questo sistema, infatti, si produce solo quando il prodotto ha domanda assicurata, senza sprechi di energia o di materie prime, pagando i grandi insediamenti industriali, la logistica e l’accesso al mercato digitale stesso attraverso il riconoscimento di una percentuale del fatturato generato. Per trovare la domanda, quindi, devo valutare se sono in grado di fare comunicazione e marketing con i miei mezzi (ho un sito, un following, una presenza digitale o fisica che posso convertire a domanda?) oppure se raggiungere un accordo con le grandi brand presenti sul mercato digitale che esistono proprio per la loro efficienza nel trovare la domanda. La comunicazione, il network, la rilevanza del mio brand personale nel mondo della comunicazione digitale mi potrebbe permettere di non passare dalla grande azienda per mettere sul mercato il mio prodotto, viceversa, in un’arena dove miliardi di aziende ed individui introducono offerta, dove la produzione è subordinata all’incontro con la domanda, trovare il modo di essere notati dai consumatori richiederà il passaggio da chi delle rilevanza ha fatto il proprio asset. Il valore delle grande brand rimarrà proprio in questo.

Nel futuro che io immagino, queste gigantesche infrastrutture di produzione, distribuzione e mercato, sono di proprietà collettiva attraverso la finanza; cioè sono gestite con principi e personale privato ma le loro azioni, soggette alle oscillazioni tipiche del mercato finanziario, sono di proprietà della collettività attraverso fondi pensione pubblici o direttamente tramite enti pubblici di scopo. In buona sostanza, è la collettività che gode del margine di plusvalore prodotto dall’evoluzione tecnologica delle infrastrutture, distribuendolo come dividendo collettivo a tutta la società. Alternativamente, seguendo l’evoluzione del modello cinese, queste infrastrutture potrebbero essere direttamente controllate al partito/Stato e tramite un meccanismo più oscuro sempre soggette al controllo collettivo. Nella mia versione del tempo che sarà, più amichevole al capitale finanziario, Bezos, che ha creato la piattaforma globale logistico distributiva, riceve una statua celebrativa crisoelefantina dalla collettività mondiale, scolpita sul Mount Rushmore, viene remunerato in maniera possente per la sua capacità manageriale, onirica ed organizzativa, ma Amazon è di tutti, i margini che produce, le efficienze che innesca, portano vantaggio alla comunità intera perché sono da essa posseduti.

Il futuro che ho descritto sopra non è né sogno, né incubo. E’ un fatto economico e tecnologico che sta arrivando a cui io ho sovrapposto uno strato politico e culturale, cioè quello della proprietà collettiva. Entrando nella dimensione individuale, lo scenario pone però molti problemi, alcuni che hanno a che fare con il fondamento stesso della identità umana. Partiamo dal lavoro. Nella storia della nostra specie nessuna società ha mai prodotto una classe creativa in misura superiore al 9% della popolazione totale. La natura dell’intuizione creativa, se la guardiamo sotto ogni angolatura, dall’economia alla tecnologia o alla produzione culturale, richiede l’abilità di connettere ciò che non è ancora connesso, attraverso nodi che non sono ancora stati stretti; una abilità che non è possibile universalizzare e che richiede profili caratteriali ben definiti. Lo sforzo economico per educare in massa la popolazione a possedere questa abilità è infinitamente superiore alla già proibitiva spesa che sarebbe necessaria per dare a tutti gli strumenti per esercitare l’attività creativa. Psicologicamente, poi, sostenere una attività non ripetitiva e basata sulla originalità, farlo con la continuità e l’incertezza inerenti ad un mercato senza barriere di entrata, come quello che ho descritto sopra, avrebbe impatti e richiederebbe profili caratteriali che non sono di massa.

La società della creatività tecnologica e della competizione economica che la digitalizzazione – senza controcanto politico – sta imponendo, trasformando le strutture produttive, distributive e di accesso al mercato, ha costi economici e psicologici inauditi. Il lavoro salariato sarà stato dipendente, ma offriva un certo riparo dall’incertezza e dal bisogno di originalità che, lungi da essere solo ed esclusivamente fonte di frustrazione, era anche una maniera efficace di trovare equilibri rassicuranti per gran parte dell’umanità. Non tutti amano l’insicurezza che deriva dalla competizione o la manifestazione degli ordini di gerarchia che questa impone, non tutti vivono con piacere un’esistenza interamente votata al trionfo competitivo. Non tutti hanno avuto a disposizione, per famiglia o investimento pubblico, le strumentazioni per competere che renderebbero eticamente legittima una società interamente costruita sul successo competitivo. In questi anni l’assenza di una voce collettiva e autorevole ha lasciato che il percorso di trasformazione del lavoro fosse disegnato da aziende ed individui che alla tecnologia hanno abbinato il successo economico, vivendo in contesti dove l’imprenditorialità creativa era il segno comune. Hanno immaginato un mondo a loro immagine e somiglianza, un futuro che massificasse la loro immagine, ma lo hanno potuto fare, appunto, perché non è esistita una versione alternativa, collettiva, dove la voce del resto del mondo avesse peso. Se, per la prima volta nella storia, viviamo in un periodo dove l’economia è più efficiente diminuendo la partecipazione umana alla sfera produttiva, dove il consumo di materie prime ed energia va qualificato e non massificato per consentire la sopravvivenza a lungo termine della specie umana, allora i meccanismi di esclusione e piena partecipazione non possono, non devono, non è legittimo che siano disegnati esclusivamente da agenti che operano in sfere dove si riconosce come legittimo l’interesse parziale e la difesa dei privilegi acquisiti. In altre parole, esclusione e partecipazione devono essere definite su principi di legittimità universale e sulla base di un disegno della società futura universalmente legittimato.

Il lavoro che ci aspetta, quindi, sarà articolato. Per chi di noi ha la voglia, la possibilità e il desiderio di misurarsi con un mercato digitale e trasparente, senza barriere di ingresso, giusto ma crudele nel determinare successo e insuccesso, la possibilità sarà immensa. L’esilarante alternarsi di progetti di successo, il congregarsi di bande di amici e colleghi impegnati in un unico sforzo, il confronto con la competizione su scala globale, la possibilità di guadagnare premi importanti economicamente e reputazionalmente, tutto ci spingerà a una vita intensa, forse un pò troppo assorbente, ma libera nella sua più piena accezione. Dovremo essere preparati psicologicamente e nelle competenze a vite a portafoglio, dove invece di carriere avremo sfilze di progetti, alcuni di eccezionale successo, altri meno. Dovremo essere costantemente preoccupati del marketing di noi stessi, della percezione che gli altri hanno di noi, della narrativa attorno a noi stessi. Il network sarà fondamentale, così come la conoscenza dei fattori complessi e l’accesso a alleanze e ambienti competitivi ma meritocratici. Per alcuni sarà il paradiso, per altri l’inferno. Se superiamo – anche se il se è molto ipotetico – con un enorme investimento economico collettivo il problema della distribuzione universale delle competenze necessarie a partecipare a questa competizione libera, dobbiamo fare i conti con le influenze del contesto, i vantaggi ereditari di chi vive in ambienti che hanno generazioni di formazione e preparazione psicologica alla competizione, che hanno soldi per aumentare l’arsenale di competenze, che hanno la solidità economica e emozionale tale da minimizzare il rischio di una vita senza certezze. Non possiamo far finta che questo non esista, che non ci siano miliardi di persone per cui la vita dell’imprenditore iper competitivo non solo non è possibile, ma neanche desiderabile.

Per la prima volta nella storia, lo sviluppo tecnologico ha reso queste persone non più necessarie allo sforzo produttivo collettivo. Il lavoro in fabbrica, in ufficio, alle poste, in banca e forse anche a scuola lo faranno meglio i computer e le intelligenze artificiali. L’economia deve diventare efficiente, anche nel consumo delle materie prime e dell’ambiente, che non va più sfruttato ma difeso. La società del 21 secolo non ha bisogno di coinvolgere tutta la popolazione nell’attività produttiva, anzi, più seleziona l’inclusione meglio è. In questo cambiamento epocale guidato dallo sviluppo tecnologico, dal declino ambientale e dall’esplosione demografica, troviamo il vero, grande momento di trasformazione del nostro presente e del nostro futuro. Gli individui che rimangono fuori dal sistema produttivo devono, però, essere sostenuti economicamente e psicologicamente. Se per tutta la storia del nostro genere l’individuo ha spesso posto nel proprio lavoro le radici della propria identità e della partecipazione alla società, non possiamo pensare a un futuro dove entrambi siano un privilegio la cui attribuzione ha natura economica o tecnologica. Economicamente, poi, il mercato stesso ha bisogno della presenza di una domanda ricca e di massa per poter essere fedele al suo ruolo di distributore efficace della capacità produttiva. Siamo in un contesto dove il lavoro come lo conoscevamo non serve o, peggio ancora, ha elementi di minaccia esistenziale per il genere umano in termini di conseguenze ambientali. Dobbiamo trovare altri modi per assicurare, come specie e come organizzazioni sociali e politiche, a tutti accesso a competenze, potere di acquisto e forme di attività tali da consentire lo sviluppo pieno di una identità individuale e della partecipazione alla società.

In soccorso a questo problema arrivano la dimensione social, la de materializzazione digitale della partecipazione al discorso collettivo e lo sviluppo della realtà virtuale. La partecipazione a una sfera legittima e importante dell’esistenza che non consuma materie prime e costruisce un tessuto comune con il resto della società, come i media sociali digitali, restituisce un senso di identità e partecipazione. L’importanza psicologica e per certi versi ideologica nell’accezione marxista dei social media è incontrovertibilmente legata, fondante tanto quanto la robotica e l’intelligenza artificiale, al nuovo contesto economico e produttivo. E’ una sfera dell’esistenza che ha oggettiva importanza nello sviluppo dell’identità e del senso di sé degli individui, una forma di partecipazione sociale soddisfacente e una contribuzione diretta alla domanda che si esprime sul mercato digitale di cui abbiamo sopra discusso. Percependo il dividendo di cittadinanza legato alle efficienze dei grandi insediamenti produttivi, liberi nei tempi dal lavoro salariale, i non lavoratori rimangono connessi al discorso sociale tramite i social e mantengono il diritto di entrare nel mercato digitale globale se lo sentono possibile o opportuno, senza esserne obbligati. All’interno dei social, anzi, possono cominciare ad avere esperienze più gestibili della competizione assoluta del mercato digitale, muovendosi per un riconoscimento – molto premiante psicologicamente – in cerchie che hanno precedentemente selezionato o che si raccolgono per affinità. Sono pieni partecipanti al discorso collettivo, impegnati nella costruzione di narrative personali e identità solide e permanenti, seppure all’interno di una sfera digitale che serve non solo a annacquare la percezione delle differenze oggettive di status, ma anche a restringerne l’impatto sulle risorse ambientali condivise. Più persone sui social, meno persone in macchina, insomma. I meccanismi di marketing e pubblicità delle merci sviluppate nel nuovo settore produttivo, poi, potrebbero ulteriormente premiare i campioni di questa dimensione di vita sociale, monetizzando la loro rilevanza e capacità narrativa, dando incentivo ulteriore al pieno ingaggio in questa dimensione di esistenza.

Se tutto sa troppo di digitalizzazione, il prossimo passaggio spaventerà di più ancora. Con una società dove esiste una struttura produttiva e distributiva robotizzata, dove il mercato è digitale, trasparente e privo di barriere, il social costruisce identità solide e definisce la partecipazione attiva, il tempo da dedicare a esperienze intense ed imperdibili aumenta. Siano i mesi di buco tra un progetto e l’altro dell’imprenditore competitore, i periodi del giorno passati al di fuori dai social dei non più lavoratori, le pause che l’attività creativa richiede per non bruciarsi, il tempo abbonda. Così come le differenze sociali. Nello schema disegnato sopra, infatti, seppure la proprietà comune dell’infrastruttura produttiva, distributiva e di mercato permette a tutti di godere di un dividendo che ne mantenga la capacità di acquisto, ci sono premi e privilegi per chi ha successo. L’incentivo individuale e economico a primeggiare nella competizione si allarga, esplode in un mercato senza barriere e in una sfera social che ha sostanza individuale e politica. Lo spettacolo di differenze reali nello spettro di esperienze possibili renderà sempre fragile questo equilibrio disegnato per virtualizzare la partecipazione al sistema produttivo di numeri sempre più ingenti di individui. L’enorme disparità potrebbe innescare un malessere che mina la domanda e l’attivismo della partecipazione competitiva degli individui al mercato o al social, fino anche a innescare elementi autoritari nella guida politica nel nome di aggregazioni guidati dallo Schadenfreude, così comuni nella sfera social. La soluzione è una massiccia penetrazione della realtà virtuale, con una attiva industria dell’immaginazione alle spalle, che crei occasione dopo occasione di esperienze verosimili sempre più coinvolgenti, in grado di cancellare la percezione della dimensione fisica della diseguaglianza.

Tra utopia e distopia, mi aspetto un mondo dove i giganteschi passi avanti della tecnologia digitale, della robotica e dell’intelligenza artificiale costruiscano una nuova struttura di produzione, distribuzione e accesso al mercato che sia efficace, efficiente e di proprietà collettiva. Mi aspetto i vantaggi dell’aumento di efficienza distribuiti per tutti in una sorta di dividendo di cittadinanza e in un migliore consumo di energia e materie prime. Questa immensa e sostenibile struttura produttiva, la vedo asservita all’attività imprenditoriale di un mercato della creatività pienamente capitalista, dove una competizione senza barriere all’entrata si sfida per l’attenzione di una domanda di massa con capacità di acquisto. Un contesto in cui i meccanismi di allocazione di capacità produttiva si fanno sempre più accurati, sempre più efficaci. Il tutto mentre il sistema ridisegna l’ontologia della partecipazione e della identità per chi ha perso il lavoro dipendente e non ama o non può convivere con i livelli di incertezza e di competizione del nuovo mercato per motivi economici o caratteriali. Una nuova partecipazione che richiede un trade-off tra virtuale e reale ma che avviene rispettando tempi e inclinazioni psicologiche individuali attraverso una dimensione digitale sociale forte e importante, scheletro di un discorso collettivo e politico dove esiste una competizione mediata da appartenenze e comunità. In questa sfera sociale, mi aspetto che il fenomeno tipico del software prevalga ancora e la rilevanza trasformata in continuità d’uso, la popolarità insomma, introduca elementi di premio e di gerarchia non evitabili. Un contesto dove, quindi, le diseguaglianze non diminuiranno; piuttosto, in un mercato digitale e in una sfera social senza barriere di ingresso, dove la domanda si aggrega liberamente come consumo o come “following”, avranno conseguenze più importanti e più volatili. Agli effetti concreti in termini di ricchezza e vantaggio che queste conseguenze avranno, andiamo anche a sommare il fatto oggettivo che esisterà una categoria di persone di fatto esclusa dall’attività produttiva – se vogliamo separata da quello che ad oggi costituisce cuore della prosperità e dell’identità personale. La soluzione non sarà un intervento sulla ontologia della diseguaglianza, ma un rafforzamento del meccanismo digitale e virtuale dell’offuscamento della sua percezione, della diminuzione della sua importanza per le vite percepite dei cittadini. Attraverso la diffusione di massa della realtà virtuale, il sistema donerà a tutti la possibilità di avere l’esperienza più simile possibile alle vite piene dei diseguali. Rendendo disponibili simulacri sempre più convincenti e intensi delle vite piene, la società renderà meno dirimente il condurre effettivamente vite piene, in questo modo perpetuando sé stessa seppur introducendo mercati senza barriere e mobilità individuale senza presunti limiti. Antropologicamente, sarà curioso capire quanto potremo spingersi nel sostituire il reale con il verosimile, nella costruzione della nostra identità e del nostro senso del contesto, prima di modificare in maniera sostanziale l’ente generico al quale siamo legati dalla nascita.

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