I Media e la Generazione X: un Destino Comune

Gli stranieri che ci spaventano non sono solo quelli che dormono in stazione, ma sono i programmatori, i musicisti, gli scrittori, i giornalisti, gli imprenditori di questa nuova terra di mezzo che vedono la precarietà come una condizione naturale e non come un passo indietro dal privilegio della carriera.

La parabola di una generazione di ragazzi e ragazze occidentali – la mia, quella nata negli anni settanta, nell’ultimo grande boom demografico del mondo industrializzato – si racconta al meglio attraverso il prisma di quello che è successo all’industria dei media. Se guardiamo la storia degli ultimi 40 anni dell’industria dei media professionali, possiamo osservare l’intero arco narrativo, tecnologico ed economico che ha impattato i destini individuali e collettivi dei figli della classe media occidentale. Un arco che ne ha cambiato le relazioni economiche e psicologiche fondamentali.

Come i media, la mia generazione ha vissuto un percorso che ci ha reso sempre più centrali alla vita delle nostre comunità e delle nostre economie. Oggi noi (come i media) siamo cruciali nella produzione, nei consumi e nello sviluppo della finanza. Contestualmente, però, globalizzazione, digitalizzazione, la creazione delle economie di piattaforma e la automazione intelligente, hanno ridisegnato le regole di distribuzione delle risorse, del potere e della rilevanza a livello personale e comunitario. Con l’universalizzazione e la semplificazione dell’accesso alle piattaforme economiche, tecnologiche, culturali e sociali, è aumentato costantemente il tasso di competizione, il valore del premio alla vittoria, della punizione per la sconfitta. Per chi si muove all’interno di queste piattaforme, si sono sgretolate le rendite di posizione, le barriere all’entrata, la governabilità del proprio contesto e la prevedibilità del proprio futuro.

Così come i social media o i motori di ricerca hanno innescato un processo di universalizzazione, standardizzazione e semplificazione dell’accesso all’informazione e all’intrattenimento, così hanno globalizzato e semplificato l’accesso al mercato della produzione e del lavoro. Negli ultimi 30 anni questa nuova economia ha di fatto costruito un unico mercato del lavoro su scala globale, lasciando che le aziende o le piattaforme stesse di accesso si spartissero gli ingenti incrementi di valore che la competizione globale ha innescato. La stessa competizione che ha prodotto dinamiche di stasi nella percentuale di valore destinata alla remunerazione del lavoro (e del consumo) a fronte di crescita economica e permesso arbitraggi geografici per tenere al minimo la forza contrattuale dello Stato nel definire le regole del lavoro o le politiche per la tutela dell’ambiente naturale e sociale. Una unica arena dove convivono classi agiate che perdono privilegi e ceti sotto privilegiati che guadagnano peso, uniti nello sforzo di mantenere il proprio bagaglio di competenze, la propria reputazione e la propria rilevanza sul mercato in misura sufficiente da comandare un compenso e acquisire merci finanziarie – unico vero strumento di partecipazione alla distribuzione del valore generato dalla rivoluzione tecnologica. Come Il New York Times o il Corriere della Sera, chi nella mia generazione non è stato in grado di appropriarsi fin dall’inizio della trasformazione tecnologica, ma la ha subita, adattandosi, si trova ora a condividere un destino che ci divide tra chi possiede queste piattaforme e gode di barriere di ingresso, di economie di scala, di rendita di posizione, e chi invece opera all’interno di esse e vive, sostanzialmente, in una società dominata dall’insicurezza che nasce dalla competizione ubiqua.

La Parabola: dall’inizio della loro storia, i media industriali erano predicati sulla scarsità. Costruire un network di torri televisive o radiofoniche, sviluppare studi di produzione o circuiti di sale cinematografiche, comprare risorse rare come le frequenze, acquistare rotative e sostenere complessi apparati industriali, costava molto e rendeva possibile solo a pochi entrare in questi mercati. Risorse tanto ingenti che, in molte geografie, abbiamo lasciato allo Stato il compito di sviluppare il settore per paura che non ci fossero imprenditori privati in grado di sostenere simili magnitudini di investimento. In questo mercato per pochi, dove le barriere all’entrata costruivano stabilità e ritorni a lungo termine, le strutture del personale e le relazioni industriali certificavano lunghi praticantati, formazioni esoteriche e processi corporativi di accesso a strutture produttive iper gerarchiche, costose e sistematicamente nemiche della competizione e dell’apertura. In questo contesto, potere e denaro, politica e aziende, si trovavano per certi versi costretti a trattare con chi dominava questa costosa terra di mezzo, gli stabili proprietari dello spazio di trasmissione della cultura, dell’informazione e dell’intrattenimento. Pagare per essere parte della conversazione sociale che questi pochi influenzavano e dettavano proprio in virtù della scarsità, delle liturgie di consumo che loro stessi imponevano.

L’effetto combinato e disgiunto di tecnologia e finanza ha travolto questa scarsità, rendendo possibile a chiunque, senza vincoli di appartenenza a organizzazioni o corporazioni, accedere ad una piattaforma di distribuzione e di conversazione sociale condivisa e globale, senza costi e barriere. Questo semplice dato di fatto ha minato per sempre le vecchie strutture dell’industria dell’informazione, dell’intrattenimento e della creatività. Le industrie dove si affollavano da un secolo i rampolli delle classi agiate occidentali, nati e cresciuti nel mito del lavoro intellettuale e imprenditoriale come elementi di ricchezza e distinzione sociale. Non si tratta, quindi, di un singolo elemento che ha cambiato le regole del gioco, ma dell’azione contestuale di forze molteplici e ben finanziate. In primo grado lo sviluppo di piattaforme digitali di distribuzione del contenuto, gratuite o addirittura in grado di condividere fatturato con i produttori, che hanno richiesto investimenti iniziali su scala mai vista prima nella storia del capitalismo. Decine di miliardi investiti grazie al capitale di ventura per rendere Amazon, Google, Facebook globali, prima ancora che facessero anche un solo dollaro di margine. In secondo grado lo sviluppo di strumentazioni per l’accesso a queste piattaforme e la produzione di contenuti per esse, la distribuzione di massa e il crollo dei costi operativi di queste strumentazioni. Gli smartphone e la connettività che progressivamente si sono diffusi su scala globale contestualmente a una contrazione dei loro costi fino ai nostri tempi in cui per cifre vicine ai 5 dollari al mese è possibile ricevere un pacchetto completo di strumento e connettività.

A rafforzare la centralità di questo cambio di paradigma, il mercato finanziario ha continuato a premiare le aziende coinvolte in questa sfida di globalizzazione delle piattaforme digitali attraverso valutazioni monstre e ulteriore iniezione di capitale di ventura. Oltre a condonare un perverso meccanismo per cui le stesse aziende, a fronte di una marginalità inaudita nelle fasi economiche precedenti, sono state incentivate (anche nelle figure die propri manager e fondatori) a innescare meccanismi di buy-back e di sostegno alla valutazione finanziaria dei titoli. Per certi versi rendendo la partecipazione finanziaria di massa l’unico strumento efficace a disposizione degli individui per correlare la crescita economica e il proprio potere di acquisto. Se non fosse bastato il confluire delle forze economiche, tecnologiche e finanziarie, possiamo anche aggiungere al campo dei fautori della competizione pervasiva anche la massiccia azione culturale e istituzionale che nel corso degli ultimi 20 anni ha reiterato in tutti i modi la centralità dell’uso dei media digitali per la piena partecipazione sociale degli individui, condita da una benevolente assenza di qualsiasi regolamentazione da parte degli Stati su tutto lo scacchiere occidentale.

Le piattaforme digitali sono per lo più americane, va detto; ma non appartengono né servono lo Stato americano. Piuttosto devono la loro lealtà alla finanza globale che previdentemente ha aperto, tramite il capitale di ventura, l’accesso alla proprietà di queste piattaforme alle famiglie più importanti del mondo intero. La natura cosmopolita della proprietà di queste piattaforme e, quindi, della distribuzione dei loro vantaggi ha permesso che, sin dall’inizio, fossero investite somme precedentemente inaudite nello sviluppo e nella diffusione di queste piattaforme; di fatto sancendone la scala planetaria e il consolidarsi di interessi compositi e globali nell’egemonia, rapida, di questo nuovo contesto comune per la conversazione globale. Google, Facebook o Amazon sono aziende quotate sui mercati azionari USA, hanno quartieri generali negli USA, ma la loro proprietà è globale così come la loro forza lavoro. Anzi, questo loro aspetto intrinsecamente globale ha accelerato e favorito il loro progresso a piattaforme planetarie; le ha rese, di fatto, spazi al di fuori dei sovranismi statali, elementi fondanti del contesto comune, uniche agenzie con una estensione di azione pari a quella del mercato globale che hanno costruito. E’ grazie a questa pervasività, basata sulla rilevanza d’uso prima ancora che sulla geografia, le piattaforme digitali hanno trovato il modo di costringere i media industriali a rinunciare alla loro tradizionale esistenza in una sfera di alterità; quella terra di mezzo tra economia e potere dove potevano svolgere la funzione di guardiano. Media che sono diventati, progressivamente, parte del processo di universalizzazione della semplificazione digitale.

L’incremento esponenziale di produzione e consumo di informazione, intrattenimento e comunicazione che si è accompagnato alla globalizzazione delle piattaforme digitali, ha portato ad un aumento del valore e della rilevanza di queste attività nelle vite di ciascuno di noi. Il plusvalore di questo incremento non è andato ai media tradizionali e alle loro forze lavoro, si è piuttosto frantumato in misure diverse sui nuovi agenti di questa conversazione sociale. Nuovi marchi, nuovi prodotti, nuovi produttori e, soprattutto, le piattaforme stesse, i contenitori e i disegnatori delle regole comuni di questo nuovo spazio culturale, ne hanno assorbito la maggior parte. La rilevanza rispetto ai lettori, alla pubblicità, al potere che prima era patrimonio dei media industriali si è progressivamente spostata verso le piattaforme e verso chi in esse aveva maggior successo. Trasformati nella loro sostanza economica, i media si sono trovati con una struttura industriale, culturale e psicologica costruita per un mondo che non esisteva più, per una definizione di successo che non esisteva più. L’intensità della competizione per le risorse, il cambiamento degli indicatori di successo introdotti dalla digitalizzazione di massa, hanno costretto marchi venerandi a competere in una arena affollata di sfidanti senza zavorre in preda ad una malaise psicologica da cui non usciranno mai. Una arena dove risorse e visibilità sono aggiudicate sulla base di nuovi indicatori di successo legati alla capacità di suscitare reazioni digitali che si compiano internamente alla piattaforma stessa, guidandone l’uso reiterato. Un successo fuggevole che va e viene, che non si conserva senza trasformazione continua e senza un continuo spostare in là della linea di impatto comunicativo; dove la bulimia di presente mangia passato e futuro, dove sentimentalismo batte verità e la narrativa batte saggistica. In questo mondo di fiction mista al quotidiano, in cui misuriamo solo gli effetti emotivi che sappiamo tradurre in digitale e non quelli ontologici, l’importanza del successo al suo interno, secondo le sue regole, cresce e diventa cruciale per ciascuno di noi.

Le piattaforme digitali hanno mutato lo spazio condiviso tra noi e le agenzie che agiscono nel nostro mondo, costruendo una nuova sfera di conversazione sociale che è più libera nell’accesso, più piatta nelle gerarchie interne, più globale nell’uso. Nel cancellare le barriere hanno permesso l’introduzione di un livello sostanziale di meritocrazia ridefinendo, però, allo stesso tempo il merito al fine che esso fosse pienamente rappresentabile all’interno della piattaforma stessa. La semplificazione della realtà richiesta dal digitale è il prezzo da pagare ed ha, di pari passo all’adozione di massa di queste piattaforme e del crescere del loro effettivo valore d’uso, mutato sostanzialmente i nostri linguaggi, i nostri processi di acquisizione della conoscenza e della partecipazione comune. Il successo della piattaforma dipende quindi da molti fattori: la sua capacità di donare esperienze soddisfacenti all’utente, la sua scalabilità, la sua flessibilità e, più di tutti, la sua capacità di costruire un valore d’uso ripetuto e rilevante in miliardi di individui. In quanto tale non può accettare competizione alcuna e deve costringere chi occupa il suo settore a sparire o a unirsi come elemento interno alla piattaforma stessa. Le grandi piattaforme digitali hanno dapprima frantumato il sodalizio tra capitale e infrastruttura che aveva retto i vecchi media. Non c’era più ritorno aspettato dagli investimenti se alla lunga le rotative, le antenne, le frequenze non erano barriere all’entrata. Poi quello tra aziende, potere e conversazione sociale; i primi due potevano direttamente trattare con le piattaforme o con la moltitudine dei produttori consumatori presenti su esse senza essere più subalterni nel rapporto con pochi detentori delle liturgie universali e dei luoghi di intermediazione. Infine quello con i lavoratori, dove le gerarchie corporative e le strutture sindacali ed industriali si sono velocemente svuotate come le infrastrutture stesse a cui sottintendevano.

In questo nuovo contesto, il giudizio del pubblico non ha molti riguardi per le gerarchie o le liturgie di consumo, ma ha molto a che fare con come è disegnata la piattaforma di distribuzione dei contenuti stessi. E’ la capacità di un contenuto e di una molecola di informazione, di adattarsi alle regole della piattaforma che permette di bucare la rete dell’indifferenza e diventare, anche solo per un momento, il centro della discussione sociale. La tecnologia digitale ha come caratteristica la necessità di rappresentare ogni cosa in un codice binario ed è più facile per le piattaforme che ne derivano semplificare la realtà piuttosto che rappresentarla. Se la realtà reale ha poco di binario, e lo sforzo economico ed ingegneristico per riprodurla fedelmente richiederebbero risorse infinite, ecco che la soluzione è la semplificazione, l’astrazione di alcune caratteristiche. In Facebook misuro il like e la condivisione di un contenuto, due azioni che trovano la loro nascita e fine all’interno della piattaforma; non misuro la sua veridicità che invece è una dimensione reale e complessa. I contenuti che questa piattaforma premia sono quelli che innescano like e condivisione, premio che si trasforma in rilevanza e soldi all’interno della piattaforma stessa. Un meccanismo che alla fine porta chi produce contenuti o informazione ad adottare immediatamente il linguaggio e le semplificazioni che servono alla piattaforma rispetto a categorie magari ontologicamente più rilevanti. Ugualmente, la ricerca di Google presume che io abbia prodotto il contenuto o l’informazione in maniera conforme alle regole di scoperta dei contenuti della piattaforma, pena l’invisibilità.

Progressivamente, la piattaforma che ha successo in termini di uso è in grado di “costringere” chi vuole partecipare ad adottare la sua semplificazione come linguaggio naturale, rendendola sempre più reale, nascondendo a tutti la sua iniziale natura di riduzione della realtà stessa, la sua artificialità. La questione ontologica, la ricerca di ciò che esiste veramente, viene soppiantata da quella epistemologica, ossia della strumentazione che permette la conoscenza. Se mi informo tramite la sfera digitale, la mia conoscenza è già definita dalle regole di queste piattaforme che preferiscono che io mi confronti con contenuti e informazioni che non partono con una domanda di verità ma con una di rilevanza; la cui credibilità è fondata nella misurazione della visibilità, delle reazioni che innescano in me: se qualcosa mi piace, la amo, la voglio, la condivido (nel doppio senso di essere d’accordo e RI diffondere). La piattaforma misura solo reazioni binarie, il like o non like, qualcosa che può nascere o morire al suo interno, generare ulteriori occasione di uso al suo interno. Indicatori che hanno tutto a che fare con la struttura della piattaforma stessa e poco o niente con i contesti del contenuto o dell’informazione.

Nel nostro presente, quindi, una gigantesca e complessa operazione di investimento collettivo, partito dalla finanza ma sostenuto dalla cultura e dalla politica, ha globalizzato piattaforme digitali di comunicazione, informazione, intrattenimento e scambio sociale. Queste, per essere efficienti, hanno dovuto o voluto semplificare la realtà e costruire una ontologia diversa dal reale, basata sulla rilevanza e non sulla verità. Questo è un indicatore più semplice, più misurabile digitalmente, che impone l’uso ripetuto della piattaforma stessa, l’azione all’interno di essa, e quindi ne rafforza diffusione e valore d’uso. A questo indicatore abbiamo traslato risorse tramite la finanza, la pubblicità, l’azione politica e culturale, introducendo cambiamenti antropologici su scala globale di cui stiamo ora studiando le conseguenze. Nel processo abbiamo abbattuto barriere e scardinato rendite di posizione perché, nel più elementale dei ragionamenti, mentre una società basata sulla verità una volta che la trova non la discute, una basata sulla rilevanza cambia di continuo, predilige la narrativa, l’opinione, l’ondata sentimentale a qualsiasi canone fisso. Da Parmenide a Eraclito, dalla ricerca dell’immutabile all’abbraccio del transiente. La rilevanza cambia, è competitiva per natura, non è mai acquisita per sempre, viene creata mettendo insieme molti fattori e non riconosce esperti. Radicata nell’iper semplificazione del reale che inizialmente era un necessario aspetto della digitalizzazione e dell’efficienza nel disegnare ingegneristicamente piattaforme di software, la nuova era della rilevanza è uscita dalla sfera della comunicazione e ormai si compenetra col reale. Più tempo noi passiamo in sfere di esistenza che sulla rilevanza definiscono i propri meccanismi, più questa assume importanza per le nostre identità, per il nostro senso di noi stessi e per i nostri redditi.

L’era della Rilevanza ha però una natura ipocrita, ideologica per dirla con Karl Marx, che deriva direttamente dai pensieri fondanti dell’impero Americano. Gli USA, infatti, sono costruiti politicamente su una dichiarazione di indipendenza che affermava l’eguaglianza universale e il diritto alla ricerca della felicità, tollerando invece una realtà dove la schiavitù era diffusa in maniera massiva. La natura ideologica dell’apparato culturale e di comunicazione era chiarissimo ai padri fondatori che ne teorizzavano la necessità (appello universalista e tolleranza della schiavitù) per non strappare il tessuto del modello Americano. Lo stesso poi nel suo sviluppo successivo che, prima con la guerra civile e poi con il boom del ‘900, continuava a raccontare un modello culturale e retorico imperniato sul racconto di individui liberi di agire in coscienza, liberi di progredire socialmente ed economicamente, il cui fallimento nel salire la scala sociale ed economica poteva solo ed esclusivamente essere imputato a un loro fallimento morale. Il tutto mentre nascevano i trust, la distribuzione delle risorse si polarizzava, il razzismo veniva solidificato negli ordinamenti dei singoli stati e nelle ghettizzazioni urbane; mentre il lavoro di immigrati veniva sfruttato, in ondate che si ripetevano, in maniera schiavile da ricche elites bianche ed ereditarie. Lo stesso modello che oggi, sostenuto dai soldi e dall’azione compatta dello 0,1% della popolazione mondiale, vuole vedere il resto del mondo ipnotizzato dalla libertà digitale, dalla libera e impellente competizione per la rilevanza sociale, dalla mancanza di barriere di accesso a una forma di informazione che però non è ordinata attorno al vero ma al rilevante. E se l’informazione su queste piattaforme è costruita per discreditare in continuo l’azione politica – per natura collettiva e basata su un processo di mediazione delle volontà individuali per costruire una agenzia condivisa e legittima su un contesto condiviso – nel nome del principio Americano della correlazione unica tra status personale e morale individuale, i media tradizionali e tutti gli agenti che lavorano all’interno di queste piattaforme adottandone i linguaggi, hanno rafforzato negli ultimi 40 anni questo attacco alla politica. In questi giorni in cui lo Stato è un bancomat, ridotto all’unico ruolo di dare risorse quando l’ingordigia dello 0,1% mina la fungibilità del sistema, la sfera digitale corre in soccorso occupando le nostre teste e le nostre menti in un simulacro di meritocrazia e libertà, di eguaglianza di fronte alla rilevanza. In questo mondo ipercompetitivo dove non esistono veramente barriere di ingresso o rendite di posizione (se non quelle delle piattaforme stesse possedute dal solito 0,1%) il premio alla rilevanza ha ormai valore reale; è reddito, fama, validazione della personalità, costruzione di rete di relazioni. In questa dimensione, più facile appunto perché artificiale, sfoghiamo il nostro desiderio di cambiare mentre nella dimensione reale le polarizzazioni si sedimentano e lo 0,1% consolida il suo dominio sui contesti comuni senza dover usare l’esercito o doversi palesare nell’agone democratico; anzi, come spesso accade nell’ideologia Americana, si nasconde dietro una narrativa di successo individuale con contorni morali.

La mia generazione, che ha consapevolmente abdicato la scelta politica, vive quindi una vita alienata. Una dimensione di identità personale e di partecipazione al discorso collettivo che è libera, consapevole e digitale nella sostanza, insieme a una dimensione del lavoro e della vita reale dove la mobilità sociale e la libera partecipazione al disegno del futuro e del contesto comune si sono ridotte. Come per i media industriali rispetto alla rivoluzione digitale, però, la responsabilità è anche nostra. Siamo nati in un periodo dove il progresso delle sorti collettive ed individuali era dato per scontato; nati da genitori che avevano vissuto il boom della democrazia liberale e del capitalismo del dopo guerra, le cui carriere erano state per la maggior parte dei casi lineari. Vivevamo in un Occidente dove educazione di massa e partecipazione di massa alla vita economica capitalista costruivano un mercato privilegiato del lavoro e dell’imprenditoria. L’azione politica, figlia della crisi degli anni 30 e 40, era ancora presente e attiva nei meccanismi di redistribuzione, legittima agli occhi della società e non ancora azzoppata da livelli di debito pubblico insostenibili. La mediazione delle pulsioni individuali ancora accettata dalle memorie di guerra e povertà dei decenni della prima metà del secolo. Un idillio che già negli ’80 si spezzava e che, attraverso globalizzazione e digitalizzazione, si è progressivamente disgregato.

La mia generazione è arrivata sul mercato del lavoro a metà degli anni ’90, nel pieno del boom Clintoniano, con il debito pubblico già alle stelle, la globalizzazione in pieno sviluppo e la digitalizzazione che iniziava di pari passo all’esplosione del consumo di media e intrattenimento. La finanza era stata de-regolata e la tecnologia delle telecomunicazioni costituiva l’avanguardia del tentativo di costruire un mercato unico globale dell’accesso. I primi timidi approcci della società dell’insicurezza arrivavano con la delocalizzazione degli apparati produttivi, la defiscalizzazione dei colossi globali e un lento ma inesorabile procedere dell’automazione. La supremazia ideologica del blocco Thatcher/Reagan aveva innescato processi di riduzione del carico fiscale sulle fasce più ricche della popolazione, cominciato il lavoro di smantellamento dei sistemi pubblici di tutela, salute e scolarizzazione, convinto fasce crescenti della popolazioni che l’azione pubblica fosse un impedimento alla libertà individuale. La fine dei mores pudici del dopo guerra aveva dato sfogo a una incredibile progressione delle disparità nei compensi e nei redditi in tutto il mondo occidentale, accreditando il principio che l’accumulo ostentato del denaro fosse misura di una certa supremazia morale o intellettuale. Crisi sanitarie di impatto globale, sebbene più psicologico che reale, come l’AIDS, avevano già minato la narrativa delle sorti magnifiche e progressive; lo 0,1% si era già liberato da molti dei lacci della politica e delle regolamentazioni. In questo clima la computerizzazione del lavoro cominciava ad affermarsi e molti di noi si affrettavano a allungare i tempi di studio, pagando somme ingenti per titoli oltre la laurea e competenze tecniche verticali. La classe media cominciava a vivere vite a portafoglio, non più spese in una singola carriera ma in un susseguirsi di progetti, ruoli, aziende che cambiavano periodicamente. L’idea stessa di una carriera, anzi, acquisiva una certa ambivalenza; da una parte l’idea della progressione e dell’aumento di risorse e responsabilità che con questa progressione sono associati, dall’altra una sensazione di occasioni perse e di mancata massimizzazione del proprio valore sul mercato.

Il filo si spezza definitivamente con la crisi del 2008; da molti introdotta come una crisi finanziaria che in realtà trae le proprie radici negli squilibri molto reali e molto economici che la definitiva assenza dell’azione pubblica di riequilibrio ha sul sistema. Dopo quasi 30 anni di smantellamento dei sistemi fiscali e di assistenza e supporto, dopo la costruzione premeditata di castelli di debito che ne ingabbiassero lo spettro di azione, dopo aver permesso che l’azione economica crescesse in complessità e estensione oltre ogni contro-potere collettivo, lo Stato aveva (ed ha) esaurito la sua forza di agenzia sulla società. Anzi, ridotto culturalmente e nella vulgata dei media a ricettacolo di burocrati corrotti e scansafatiche, l’istituzione pubblica diventava automaticamente illegittima in qualsiasi tentativo di azione trasformatrice. Salvo, a cominciare proprio dal 2008 e incessantemente sino ad ora, a rinascere nel subalterno ruolo di bancomat di ultima istanza per una sfera produttiva e sociale che si rifiuta di correggere gli squilibri distributivi che ne inficiano la crescita e la solidità o di indirizzare i cambiamenti tecnologici ed economici che rischiano di escludere una parte della popolazione. Il grande azzardo morale di questi ormai 12 anni non è l’indebitamento dello Stato per sé, ma il fatto che queste risorse non siano state usate per costruire una nuova piattaforma di crescita collettiva o una rete di supporto a una popolazione alle prese con cambiamenti sostanziali del lavoro. Sono state usate per puntellare il più a lungo possibile un modello inerziale che continua a distribuire vantaggi sproporzionati allo 0,1% della popolazione e delle aziende.

In questo modello la sfera produttiva si allarga su scala globale e si automatizza sempre più, creando in un primo momento domanda e benessere in altri luoghi del mondo per poi indebolire questo effetto positivo di pari passo all’automazione del lavoro. Automazione che porterà inevitabilmente al ritorno di catene geografiche più corte anche in ragione delle fragilità ambientali e sanitarie plasticamente dimostrate da CoVid-19. L’automazione e la digitalizzazione della produzione di beni e servizi aumenterà i margini delle imprese, sostenendo per certi versi le previsioni positive che sembrano sostenere le valorizzazioni ancora ricche del mercato borsistico. Mantenere alti i valori di borsa sarà però un imperativo per la guida di queste imprese che dedicheranno sempre più risorse a sostenere i propri titoli anche attraverso riserve e azioni di riacquisto. La quota di risorse ridistribuita alla popolazione direttamente, cioè non come parte del dividendo azionario, diminuirà ulteriormente nel corso dei prossimi anni e, salvo azione politica ad oggi poco probabile, contrarrà ulteriormente gli spazi salariali nel settore produttivo. L’aumento della scolarizzazione media in tutto il mondo, l’accesso digitale poco costoso e ubiquo, la creazione di una sfera economica collegata puramente alla dimensione digitale (dall’influencer al crowd funding per intendersi) sposterà in una arena molto competitiva gran parte delle opportunità a disposizione della classe media globale. La stessa natura iper competitiva e globale sarà determinante delle gerarchie del mondo dei servizi all’impresa, dei servizi professionali e nel disegno di software e opere di ingegno. Il futuro di chi vuole fare cultura, comunicazione o intrattenimento sarà egualmente competitivo. In poche parole, fatta salva l’iniziativa individuale di partecipazione ai dividendi finanziari legati ai valori di borsa delle grandi imprese infrastrutturali di produzione e distribuzione, il resto del lavoro di ciascuno di noi sarà svolto in mercati, fisici e digitali, competitivi e privi di barriere all’ingresso (spesso di proprietà dello 0,1% che ha finanziato il loro sviluppo).

Il mercato senza barriere di ingresso, impiantato in una società con una diffusa capacità intellettuale ed economica di partecipazione, ha tre caratteristiche dominanti: l’abbondanza di offerta, la mancanza di rendite di posizione e la mutabilità costante che deriva dalla competizione. E’ un mondo che ha allargato l’accesso al lavoro intellettuale e creativo, lo ha reso più competitivo e senza rendite di posizione, costruendo efficienza nei meccanismi che permettono di raccogliere reti di relazioni e risorse necessarie ad intraprende progetti in questo campo. In particolare, ha prodotto una tecnologia diffusa in maniera massiva che ha reso possibile per ciascuno di noi partecipare alla produzione di contenuti ed informazione e confrontarci con le regole della rilevanza. Per noi che siamo figli della classe media occidentale, che non siamo membri delle famiglie che possiedono le piattaforme, se non in maniera marginale attraverso merci finanziarie di massa, l’apertura globale dell’accesso al lavoro intellettuale e i suoi aspetti iper competitivi sono una perdita, appunto, di posizioni di rendita e di barriere all’entrata che erano una volta nostre.  Le abbiamo viste sgretolarsi per quattro decenni e non abbiamo fatto nulla per fermare il processo. Oggi guardiamo sgomenti entrare in questi mercati che sono stati per centinaia di anni la nostra aspirazione naturale, miliardi di persone più disposte di noi a vivere con la precarietà perché più abituati, perché in parabola ascendente e non discendente, perché stanno avendo comunque di più e non di meno rispetto a un passato molto recente. Gli stranieri che ci spaventano non sono solo quelli che dormono in stazione, ma sono i programmatori, i musicisti, gli scrittori, i giornalisti, gli imprenditori, i manager in smart working che vedono la precarietà come una condizione naturale e non come un passo indietro dal privilegio di una carriera. Siamo noi, figli dei baby boomers occidentali, che abbiamo perso le nostre certezze, che abbiamo dovuto accettare una macchina economica e produttiva che ha scardinato la povertà per miliardi di persone non europee e ha chiesto in cambio l’accesso alla sfera creativa e intellettuale (e alle risorse ad esse destinate) che pensavamo per sempre essere solo nostre.

All’alba dei 50 anni per molti di noi, il panorama che ci attende non è dei migliori. La maggior parte di noi ha comunque avuto una vita lavorativa abbastanza agiata, ma sconta l’inabilità dei servizi pubblici a medio di garantire alcuni componenti chiave di una maturità tranquilla: la salute, le pensioni e le infrastrutture di vita comune. Le nostre previdenze ancorate ai mercati finanziari hanno sofferto i bassi rendimenti fissi degli ultimi 12 anni e ci hanno costretto a incorporare maggiore volatilità, con portafogli ricchi di azioni che fanno velocemente su e giù in questa epoca più esposta ai fattori macro. L’immobiliare ci ha dato soddisfazione, ma è spesso collaterale di debiti a basso interesse che comunque richiedono reddito. Il reddito e il lavoro rimangono il problema; alla nostra età costiamo di più, abbiamo titoli di studio obsoleti, abbiamo competenze sedimentate e, soprattutto, reti relazionali che piano piano si affievoliscono. Ci aspettano almeno altri 20 anni in pieno agone competitivo (per chi non ha messo da parte abbastanza da pensare altrimenti) con una intensità di cambiamento, adattabilità e resilienza che necessariamente ci manterrà giovani anche se giovani non siamo. Con le responsabilità aggiuntive verso le generazioni più giovani ai quali, debito dopo debito, stiamo consegnando un mondo con molte poche reti di sicurezza.

Sviluppare una consapevolezza generazionale, richiamare un ruolo di guida delle nostre collettività, accettare e valorizzare i lati positivi che globalizzazione, digitalizzazione e automazione portano, richiede un disegno nuovo della relazione con la politica e del ruolo che questa deve avere nel futuro prossimo. Fuori dalle logiche totalitarie di modelli passati e presenti, lontani anche da sovranismi poco efficaci rispetto a sistemi planetari, dobbiamo risolvere le furbe interpretazioni che hanno ridotto lo Stato a bancomat delle emergenze. L’azione politica si basa sulla costruzione di una nuova idea di futuro, anzi, su nuove idee di futuro che si possano confrontare e compenetrare tramite la sfida democratica e l’esercizio dell’agenzia collettiva. Si tratta di uno sforzo che deve partire da 3 diversi fattori: 1) Abbracciare l’esistenza di una sfera digitale globale per la distribuzione di informazione ed intrattenimento, facilitare la costruzione di un mercato globale del lavoro di ingegno che premi veramente il merito, ridefinendo però il concetto di rilevanza per accomodare temi ontologici che vadano oltre gli indicatori digitali e si ricolleghino al reale. 2) Educare anche i figli delle classi agiate occidentali alla precarietà, alla competizione e alla finanza come condizione normale, dando loro in maniera massiva ed egalitaria gli strumenti psicologici, sociali e culturali per farlo. 3) Riappropriare per il sistema gran parte di quel plus valore che abbiamo lasciato alle piattaforme per favorirne lo sviluppo globale ma che ormai giace inerte, al di fuori dalle necessità produttive, nelle enormi riserve di Apple o nell’insensato margine di Google o Facebook. Restituire queste risorse alla società per ricostruire i meccanismi di partecipazione e ridisegnare la protezione a fronte di un mondo dove la competizione, appunto, non lascia più che a un decimo di punto percentuale l’illusione di un percorso personale, economico e culturale lineare.

Non si tratta di avere nostalgia del vecchio; il mondo va avanti ed è cosa buona e giusta che abbiamo introdotto miliardi di persone alla libertà dal bisogno, che abbiamo dato accesso in massa a un luogo comunitario dove far sentire la propria voce, che abbiamo automatizzato i lavori più alienanti che l’economia offriva, che abbiamo alzato il livello medio di scolarizzazione del pianeta. E’ cosa buona che la digitalizzazione permetterà di introdurre livelli di attività individuale rilevante socialmente ed economicamente senza obbligare al consumo ulteriore di ambiente e materie prime. E’ cosa buona che in un mondo che ha meno bisogno di individui che lavorino esista una sfera di esistenza sociale ed individuale dove le identità non si formano attraverso la professione. Non si tratta di cancellare l’azione di agenzie collettive volte a riequilibrare i rapporti di potere che si instaurano negli agoni competitivi, né di dare a queste priorità sulle agenzie individuali e parziali. Non si tratta di restaurare Stati sovrani o ideologie legate a modelli del 1900. Si tratta di studiare soluzioni nuove e competenti per un mondo diverso, per evitare che le penalità legate alla sconfitta competitiva abbiano psicologicamente, economicamente e socialmente le conseguenze definitive e gravi che oggi ancora hanno per chi vive al margine dell’inclusione, nei paesi emergenti e di nuovo, sorprendentemente, per chi vive nella classe media dei paesi occidentali.

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