Se mettiamo insieme i due dati, il quadro che ne emerge per gli editori è di un mercato particolarmente difficile: circa il 16% della popolazione è disposta a pagare direttamente per la propria informazione, ma lo fa ad una sola testata e in un rapporto che mischia informazione ed identità. Un terzo, circa, preferisce non informarsi. Per il rimanente 50% la battaglia per la quota di portafoglio dei clienti e di investimento pubblicitario è con giganti globali dell’intrattenimento e della tecnologia che, di fatto, definiscono anche le regole del gioco della distribuzione digitale.
Secondo il Digital News Report di Reuters, pubblicato all’inizio di Luglio 2019, sono due i dati principali che emergono da questi ultimi 12 mesi di sviluppo dei media digitali. Il primo è che la spinta all’aumento degli abbonamenti che era seguita all’elezione di Donald Trump e in generale all’attenzione verso il fenomeno della disinformazione premeditata, si è esaurita. La media generale di abbonati rispetto al mercato di riferimento si attesta attorno al 11%, con i paesi nordici ancora in crescita e con percentuale di abbonati superiore alle media attorno al 14%, ma con la locomotiva USA ferma al 16% dopo la spinta legata ai primi due anni di amministrazione Trump. Il secondo dato è il tasso di accelerazione del numero di persone che evita il consumo di news durante la giornata, crescita che si attesta al 6% anno su anno e porta il numero totale di individui che non consuma informazione consciamente al 32% con picchi di crescita in UK dove dallo scorso anno il numero è cresciuto del 11%.

Partiamo dallo stallo della crescita degli abbonamenti; il primo e incontrovertibile dato riscontrato dal report e dal mercato in generale, è che oltre il 90% di chi si abbona, lo fa ad un solo servizio, o meglio ad una sola testata. L’atto di abbonarsi è allo stesso tempo un riconoscimento alla qualità del prodotto e anche una forma di appartenenza che ha spesso risvolti politici o ideologici. Un fenomeno che restringe il mercato per i più piccoli e, soprattutto, costringe tutti gli attori a costruire il proprio linguaggio in modo da poter generare nelle proprie audience una forma di identità che motivi all’abbonamento. La produzione di news si spinge così verso stilemi e canoni di comunicazione che rafforzano nell’audience un rapporto che va oltre l’informazione ma che la segmenta naturalmente, riducendone il valore economico possibile. La demografica degli abbonati, infatti, ci descrive un pubblico istruito che tende a seguire la testata su tutte le diverse piattaforme di distribuzione di contenuti che usa nei diversi momenti della propria giornata, consumando in media più informazione ogni anno ma sempre più omogenea. La fascia meno educata, invece, tende a privilegiare ancora l’uso di strumenti non digitali di informazione quali la televisione e la radio, e a seguire flussi di notizie innervati nelle piattaforme social e di messaggistica attraverso il passa parola piuttosto che il ritorno alle fonti originali; in altre parole, legge la sinossi e i commenti ma non va poi all’articolo.
C’è poi un altro tema dietro al rallentamento della crescita degli abbonamenti: la competizione per la fetta di portafoglio destinata al consumo di media. Netflix piuttosto che Amazon Prime Video offrono documentari e serie, film e talk show per un prezzo competitivo con quello degli editori puri di informazione. L’offerta integrata di contenuti e forme di informazione cresce ed è supportata da macchine produttive con budget importanti, che la rende un formidabile antagonista per gli editori, pescando entrambi in una fascia di utenti ben precisa con capacità di acquisto non illimitata. Se il terreno della sottoscrizione si affolla con giganti come Amazon, Netflix e Disney, dall’altra parte la preponderante abitudine della popolazione globale a consumare informazione in mobilità su apparati di comunicazione intelligenti sta rafforzando il controllo che le applicazioni che dominano questi piccoli schermi hanno sui fatturati pubblicitari. Oggi Whatsapp e Apple News, per esempio, sorpassano in utilizzatori quotidiani sia il NYT sia il Washington Post; contestualmente cresce anche il consumo di informazione in audio, sia attraverso podcast, sia attraverso apparati attivati a voce come Alexa o Google Home, anche questi dominati da applicazioni proprietarie dei possessori della piattaforma di distribuzione.
Analizzando, invece, la crescita del numero di persone che decidono coscientemente di non consumare informazione, il panorama delle motivazioni e delle demografiche di questo gruppo varia sostanzialmente da nazione a nazione. In Italia, per esempio, il 28% della popolazione sceglie di vivere senza informazione, e lo fa principalmente per evitare la depressione e solo in seconda battuta perché non si fida di chi produce le notizie. Nel nostro paese evitare le informazioni è un fenomeno pariteticamente maschile e femminile – a differenza degli USA o dell’UK dove invece sono soprattutto le donne ad evitare le news – rispecchia la distribuzione d’età del paese ed è più di sinistra che di destra, colpendo più persone con educazione universitaria che non. Non si tratta di sola fatica da eccessiva esposizione, si tratta di una scelta cosciente a fronte di uno stillicidio di informazioni negative o percepite come tali, soprattutto nella forma e nel linguaggio, che lascia un senso di impotenza e soffocamento a cui si supplisce con una dieta che si sposta verso l’intrattenimento e che lascia che siano i canali sociali fisici o digitali a segnalarci le informazioni solo quando sono veramente importanti.
Se mettiamo insieme i due dati, il quadro che ne emerge per gli editori è di un mercato particolarmente difficile: circa il 16% della popolazione è disposta a pagare direttamente per la propria informazione, ma lo fa ad una sola testata e in un rapporto che mischia informazione ed identità. Un terzo, circa, preferisce non informarsi. Per il rimanente 50% la battaglia per la quota di portafoglio dei clienti e di investimento pubblicitario è con giganti globali dell’intrattenimento e della tecnologia che, di fatto, definiscono anche le regole del gioco della distribuzione digitale.